domenica 22 marzo 2020

In Gabbia


Tra tante crisi che sarebbero potute scoppiare a sconquassare un sistema avido e fragile al contempo, la pandemia è la più inabilitante di tutte. Costringe milioni di persone a stare a casa ad attendere angosciose, mentre soltanto una ristretta fascia di popolazione, dotata delle competenze tecniche necessarie, può operare rischiando la propria vita.

Non è una guerra in cui puoi arruolarti e immolarti per la patria.
Non è una carestia in cui puoi requisire gli alimenti ai ricchi per darli ai poveri.
Non è un terremoto in cui puoi prodigarti a scavare tra le macerie con le tue mani.

Davanti a questo caleidoscopio dell'orrore ti rendi conto che si tratta di una fottuta epidemia, l'ennesima tragedia di massa che sei costretto a guardare dalle quattro mura di casa, con la differenza che stavolta tutto ciò sta avvenendo fuori alla tua porta. E ti scopri in balìa del destino, come una preda nell'attesa che la malattia ghermisca te, o peggio i tuoi familiari. 

Non sono questi arresti domiciliari a spaventarmi. Da tempo l'apparente libertà si è rovesciata nel suo opposto, ossia nella costrizione
Viviamo in una fase storica particolare, in cui la stessa libertà genera costrizioni. La libertà di potere produce persino più vincoli del dovere disciplinare, che esprime obblighi e divieti. Il dovere ha un limite: il potere, invece, non ne ha. Perciò la costrizione che deriva dal potere è illimitata e con ciò ci ritroviamo in una situazione paradossale. La libertà è, nei fatti, l'antagonista della costrizione, essere liberi significa essere liberi da costrizioni. Al momento, questa libertà - che dovrebbe essere il contrario della costrizione - genera essa stessa costrizioni. Disturbi psichici come depressione e bornout sono espressione di una profonda crisi della libertà: indicatori patologici del fatto che spesso oggi si rovescia in costrizione. (Byung-Chul Han - Psicopolitica, pag. 2) 
Che dunque la costrizione sia oggi imposta per decreto governativo, cambia poco. 
Piuttosto mi spaventa questa condizione di passività forzata, nella consapevolezza che ogni "atto" non tecnicamente definito può solo arrecare danni.

Ecco perché è forse il caso di scrollarsi di dosso i numeri e le statistiche, cercare di non farsi inghiottire da questa passività, provando invece a chiederci come siamo arrivati a questo punto, come siamo arrivati a dover assistere alle file di camion militari che trasportano le centinaia di bare a cui non si riesce ad assicurare una degna sepoltura. 

Le nostre conoscenze e il nostro sviluppo tecnologico non sono serviti a fermare, o quantomeno contenere un virus relativamente pericoloso. Altroché "ordine mondiale": il caos è la vera cifra, motore primo affinché le crisi possano distruggere le forze produttive e assicurare la ripartenza del ciclo capitalistico su basi nuove.

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