giovedì 24 dicembre 2020

Il Ritorno del Medioevo ai tempi del Covid

Dietro l'incessante grancassa mediatica che si preoccupa di aggiornarci sui più virulenti ceppi del Covid scoperti in tutto il globo, operano quelli che di questa crisi cercano di trarre i maggiori profitti. Si riporta qui uno spaccato di attualità locale, a cui chi scrive cerca di restituire la coerenza che le è propria, in maniera tale da offrire un'idea di quali possano essere le manovre portate avanti per accaparrarsi le risorse del Recovery Fund. Sullo sfondo si staglia la più grave crisi socio-economica dal dopoguerra ad oggi.

Se c'è un'immagine in grado di restituire la cifra di quest'epoca, si potrebbe dire che il mondo post-Covid ha i colori sgargianti di una cancellata stagliata nel mezzo di una squallida periferia urbana. Come quelli che delimitano il magazzino di Amazon nella zona industriale di Arzano, principale hub dell'Italia meridionale del colosso americano. Secondo Repubblica sarebbero 150 gli impiegati in pianta stabile, più una ventina di autisti legati alle aziende di noleggio verso cui Amazon esternalizza il servizio di consegna. Lo stipendio medio degli impiegati "fissi" si aggira intorno ai 1500 euro lordi al mese, a cui si affianca la manodopera fornita da oltre cento precari assunti con contratti a durata trimestrale, dove si fa largo uso della chiamata ad intermittenza. I turni di lavoro sono massacranti, specie in questo periodo caratterizzato dall'essere il primo Natale pandemico di sempre. Lamentarsi però non conviene a nessuno: di questi tempi bisogna tenersi stretto il lavoro, pur se malpagato, precario e usurante, con la speranza un giorno di ottenere il posto fisso. Abbandonato il fronte del conflitto sociale tra padroni e lavoratori, oggi la tensione corre lungo una spietata concorrenza tra chi si batte per rimanere entro i confini di una società sempre più elitaria - non importa a che prezzo - e chi invece ne rimane ai margini. 

Lo stradone in cui ha sede il magazzino di Amazon è intitolato a Salvatore D'Amato, figura storica dell'imprenditoria napoletana che negli anni '60 impiantò in questa zona una fabbrica di imballaggi alimentari. "Nell'arco di trent'anni l'azienda diventa il primo produttore europeo nel settore del packaging per gelati, bibite e alimenti"  si legge sul sito dell'Unione Industriali di Napoli "tra i motivi del successo, la capacità di Salvatore D’Amato di guardare fin dagli inizi oltre il territorio d’origine, affrontando con determinazione e lungimiranza prima il mercato nazionale poi quello estero". Oggi il gruppo Finseda SpA conta oltre 2000 dipendenti con un fatturato prodotto al 50% all'estero. I figli Giancarlo e Antonio D'Amato ne hanno ereditato la gestione. Gli stabilimenti principali della Finseda e di altre società che producono beni per la logistica si concentrano tutti qui, quasi ad attrarre come una calamita Amazon che così può lucrare perfino su una filiera a chilometro zero. Eppure a tanta concentrazione di interessi industriali fa da contraltare un territorio poverissimo come quello di Arzano, non a caso assurto ad emblema della questione meridionale nel famoso libro "Io speriamo che me la cavo!" di Marcello D'Orta. Attualmente il Comune è retto da un commissario prefettizio dopo il terzo scioglimento consecutivo per infiltrazioni camorristiche. Il dominio criminale da queste parti è talmente forte che alcune settimane fa, nel corso delle proteste anti-lockdown, un corteo di motociclisti giunti sotto il palazzo comunale intonò dei cori offensivi contro Mimmo Rubio, giornalista di Arzano News più volte minacciato per aver raccontato le collusioni che interessavano l'ex amministrazione comunale. 

Antonio D'Amato
Ma se oggi la logistica (e non solo) può far volare i propri affari in modo tanto disinvolto lo si deve anche ad un mercato del lavoro balcanizzato e precarizzato oltre ogni immaginazione. Un risultato di cui può in fondo vantarsi lo stesso Antonio D'Amato, che è stato presidente di Confindustria tra il 2000 e il 2004, ossia l'arco temporale in cui iniziava una delle più feroci aggressioni del ceto padronale contro l'impianto giuslavoristico ereditato dalla Prima Repubblica: sono quelli gli anni in cui si stabilizzavano i nuovi contratti di lavoro a tempo determinato in ossequio al dogma della flessibilità, così come nel dibattito pubblico si iniziava a mettere in discussione l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori al fine di disarticolare il diritto alla reintegrazione giudiziale in caso di licenziamento illegittimo, obiettivo poi raggiunto con la riforma Fornero e con il Jobs Act di Renzi. Aggressioni che hanno privato di tutele importantissime milioni di persone, esponendole al disastro provocato dalla crisi pandemica. A loro il governo Conte può solo assegnare bonus e ristori in maniera caotica quale traduzione italica della teoria dell'helicopter money, "i soldi gettati dall'elicottero", che secondo alcuni rappresenterebbe l'unico (e disperato) sistema per far ripartire l'economia mondiale.

A catalizzare l'attenzione delle eminenze grigie del potere è oggi il Recovery Fund, intorno al quale occorre trovare la massima quadra possibile per potersi trovare pronti e drenare le risorse che arriveranno dall'Unione Europea, così come già accaduto durante gli anni della ricostruzione post-sisma, e con il solito pretesto di non lasciare abbandonato il sud contro il brutto e cattivo nord. Proprio D'Amato è la persona chiamata a mediare tra le associazioni dei ceti produttivi napoletani, ossia l'Unione Industriali e la Camera di Commercio, presiedute rispettivamente dall'ad di Hitachi Maurizio Manfellotto e il presidente Ciro Fiola. Il Mattino riporta con dovizia di particolari l'incontro che si è tenuto pochi giorni fa presso la sede in piazza Bovio. Obiettivo dei colloqui è appianare vecchi contrasti sulle nomine nei rispettivi board che avevano fatto insorgere liti giudiziarie. Oltre allo stesso D'Amato c'era anche la moglie Marilù Faraone Mennella, imprenditrice il cui nome è da anni legato ai progetti di riqualificazione dell'area orientale metropolitana attraverso il comitato di imprese Naplest da lei presieduto e rappresentante la molteplicità degli interessi che vi si raggrumano: dai porti turistici lungo la costa vesuviana al rilancio delle ville del Miglio d'Oro, fino alla rigenerazione della cintura urbana a cavallo tra Napoli e le città limitrofe. Uno degli obiettivi principali del comitato è fornire consulenza agli enti locali nella redazione dei piani strategici per lo sviluppo delle aree economicamente arretrate; in parole povere fare pressione sulla politica per inserire i desiderata di pochi negli atti di programmazione e pianificazione pubblica. Basta guardare quali sono le aziende che fanno parte del comitato: la Kuwait Petroleum Spa che ha in dote le cisterne e le delicate tubazioni che vi immettono i prodotti petroliferi dal porto, la Marina di Stabia SpA che gestisce il molo turistico di Castellammare, la CdP Immobiliare quale articolazione della Cassa Depositi e Prestiti nel cui Cda siede oggi come consigliere Francesco Floro Flores (commissario per il rilancio dell'ex area industriale di Bagnoli), la Eni SpA e via dicendo. Non proprio giovani start-up, ma concentrati di interessi di lungo corso.

Le società facenti parte di NaplEst

L'ultimo in ordine di tempo è stato il grande progetto di Pompei, dove "L’Associazione, dopo aver stipulato protocolli con l’Unità Grande Pompei (di cui alla legge 112/2013) e i Comuni interessati ha sviluppato, con l’ausilio di professionisti di fama internazionale (prof. Josep Acebillo), un proprio progetto strategico di valorizzazione del territorio che ha rappresentato l’asse portante del Piano strategico predisposto ai sensi della legge 112/2013 ed approvato dal Comitato di Gestione di cui alla stessa legge nel marzo 2018." Un modello questo che può diventare lo spunto per un partenariato pubblico-privato in vista della gestione dei fondi del Recovery fund, come ha dichiarato la stessa Faraone Mennella sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno

"Io sono pronta a mettere quella esperienza (Naplest, nda) a servizio di un grande progetto, in partenariato, in rete con tutti i soggetti pubblici e privati interessati. Il difficile oggi è proprio far dialogare le diverse realtà tra di loro. Se Napoli ha avuto carenze, è perché i vari attori del territorio spesso non si sono parlati. Intanto il nostro progetto per Pompei è all’interno di una legge speciale e sarà all’attenzione del Recovery fund. Alla base c’è un investimento privato importante [...]"

Ne emerge un quadro in cui l'occupazione del territorio, che verrebbe da definire clanica secondo le parole del più volte citato prof Fabio Armao, consente a questi soggetti di porsi come punti riferimento di una congerie di relazioni in campo economico e politico, e soprattutto veri decisori di come dovrà essere indirizzato il fiume di capitali che verrà. E non è un caso che parallelamente alle manovre del già citato duo Fiola-D'Amato, si muova anche il mondo politico. A dimostrazione di ciò, si è tenuto pochi giorni fa un incontro tra i rappresentanti locali dei partiti di governo coordinato dal segretario provinciale del PD Marco Sarracino. L'obiettivo della discussione è riproporre l'alleanza M5S-PD-LeU-IV alle imminenti elezioni comunali per convergere su un candidato sindaco comune. Personaggi che fino a poco tempo fa si apostrofavano con frasi da querela, oggi non mostrano difficoltà a stipulare accordi. Sul piatto ci sono due questioni: una "legge speciale" per la città di Napoli, gravata da un debito di oltre 2 miliardi di euro, e il Recovery fund appunto. La crisi da Covid-19 imprime pretestuosamente un'accelerazione alla restaurazione da ancien régime, ponendosi come uno spartiacque che consente di cancellare senza tanti complimenti le pesanti responsabilità di chi in questi anni ha amministrato questo territorio. Questi ampli margini di manovra possono avvenire solo perché ormai la presenza dei blocchi sociali si è ridotta al lumicino, una condizione a cui ci consegna non il coronavirus, ma anni di demolizione dei diritti e finti ribaltamenti di tavolo. A certificare il nuovo consociativismo ci ha pensato il consiglio regionale di ieri sul bilancio, approvato in appena due ore senza che l'opposizione composta da Lega, FdI, FI e 5 Stelle abbia fiatato, consegnandoci un Vincenzo De Luca con il più ampio mandato per la programmazione e gestione dei fondi che verranno, nonostante il disastro della sanità campana sia sotto gli occhi di tutti. 

Non si tratta più di malapolitica o di questioni di "casta", come si diceva una volta. Siamo
davanti a scenari di stampo medievale che, lungi dall'esser stati messi da parte, ci restituiscono una democrazia ridotta a brandelli, in cui si registra una convergenza di intenti spaventosa tra chi amministra e chi cura il proprio interesse particolare. Una situazione nel quale lo spazio pubblico è cannibalizzato grazie all'assenza di chi dovrebbe riempire quello spazio: il popolo organizzato. Scenari che non possono non destare preoccupazioni se si pensa che è nei prossimi mesi e nei prossimi anni che questa crisi chiederà il conto più salato.

sabato 14 novembre 2020

Morto Siani, Morto il Giornalismo

 

Qualche settimana fa si è celebrato l'anniversario della tragica morte di Giancarlo Siani, giornalista precario (è il caso di sottolinearlo) assassinato vigliaccamente da un commando di camorra nel 1985 nel cuore di una tiepida notte napoletana. Per arrivare ad assicurare alla giustizia mandanti ed esecutori di quel barbaro omicidio si sono impiegati anni, e nonostante tutto rimangono numerose ombre sulle quali bisogna far luce, considerando quale punto di partenza lo scenario politico-sociale in cui esso maturò (la ricostruzione post-terremoto).

Quest'anno il Covid ci ha almeno risparmiato le sempre più ipocrite celebrazioni del suo ricordo. A distanza di trentacinque anni la condizione lavorativa del povero Siani è diventata la regola per gran parte della categoria giornalistica. In tanti si arrabbattano in cerca di una redazione che pubblichi uno straccio di articolo, possibilmente non aggratis e con una paga quantomeno decente, per ottenere l'agognato tesserino di pubblicista, scarto di un ordine professionale di stampo fascista che reclama somme di denaro non indifferenti per rimanere nel club.

Quali le garanzie di libertà di chi si ritrova a scrivere in tali condizioni? Ovviamente nulle. Ogni possibilità di una libera ricerca viene bloccata sul nascere, facendo calare un silenzio di ghiaccio su inchieste e approfondimenti che meriterebbero ben altra sorte. Anche perché, e stavolta il ragionamento è circoscritto alla realtà napoletana in cui il sottoscritto si trova suo malgrado a vivere (ma può essere esteso a qualunque altro luogo d'Italia), le stanze del potere di questa città rimangono pressoché sconosciute a tutti. Sappiamo ogni cosa dei personaggi che affollano il teatrino politico a cui assistiamo, delle loro dirette Facebook, delle sparate a cui spinge una ricerca di visibilità mediatica ormai fuori controllo

Nulla invece conosciamo di quello avviene sottotraccia, del maledetto "mondo di mezzo" che ribolle al riparo da occhi indiscreti, e che Siani è stato uno dei pochissimi a scoperchiare apertamente e senza tanti fronzoli, senza cercare la mediazione di nessuno né i saggi consigli di chichessia.

Alcune delle domande a cui non si trova risposta per il semplice fatto che (quasi) nessuno le pone:

- Quanto peso dispongono congregazioni religiose come l'Arciconfraternita dei Pellegrini, proprietaria di centinaia di immobili e terreni, nelle scelte politiche dei decisori? Quali sono i membri? 

- Perché gli affidamenti per opere di somma urgenza vedono sempre la partecipazione delle stesse ditte, tutte ben identificabili in quanto provenienti sempre da un medesimo contesto territoriale? 

- Perché accade che giornali importanti dedichino parole commosse quando si verifica la morte di storici personaggi criminali? 

- Quali sono gli individui, e soprattutto le famiglie che si sono arricchite dalla selvaggia turistificazione che ha caratterizzato la città prima della pandemia? E chi sono i personaggi che ora stanno approfittando dell'attuale crisi pandemica?  

In parole povere, come si delinea il potere nella città di Napoli, vero paradigma di città strutturata su base clanica secondo la felice espressione del prof Fabio Armao? Poche e storiche famiglie, camorristiche o meno, che controllano i gangli della sua vita economica, il cui potere ha un impatto fortissimo sulla politica e sulla vita sociale, tanto da non poterne prescindere, neanche da parte di quei soggetti politici che si dichiarano antisistema. Se oggi assistiamo ad una domanda ormai fuori controllo di denaro (ancora più che di beni) necessario a tenere in vita il sistema finanziario globale (F. Armao, Le reti del potere), è chiaro che chi fornisce i flussi di capitali in grado di rispondere a questa domanda è il vero padrone dei processi sociali, non importa se illeciti o meno.

Per questo, e per molto altro, a Siani risparmiamo almeno l'affronto di essere celebrato dalla stessa melassa che fu quantomeno responsabile morale del suo omicidio. 

martedì 5 maggio 2020

Nino Di Matteo, Confindustria e l'Agguato al Governo


Iniziamo subito con il chiarire un punto che per chi scrive è fondamentale: io non ho stima né di Giuseppe Conte né del suo governo né del mio ex partito (il M5S), anzi spero un giorno di poterlo vedere soppiantato da un soggetto politico più maturo e con una chiara collocazione nell'area della estrema sinistra, perché le minestrine riscaldate dell'antipolitica sono state buone solo per le restaurazioni, prima con l'alleanza con la Lega, poi con l'odiato PD.

Quello che è accaduto lunedì sera all'Arena di Giletti ha però il sapore dell'agguato politico. Nessuno dubita della versione dei fatti data dal magistrato Nino Di Matteo, ossia che i boss mafiosi al 41bis abbiano minacciato ritorsioni nell'ipotesi in cui fosse stato nominato a capo del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, e che queste pressioni debitamente documentate nelle intercettazioni del Gom abbiano avuto il loro peso nella decisione di scegliere Francesco Basentini (oggi dimissionario, nda) per quel ruolo: sia perché il nome di quest'ultimo all'epoca era gradito alla Lega - per Salvini il ministro Luigi Di Maio e i suoi sodali avrebbero venduto pure la mamma - sia perché nessun governo appena insediatosi vuole noie sul piano dell'ordine pubblico, specialmente nelle carceri e tantomeno se orchestrate dalla criminalità organizzata: già si vedevano le tante vanagloriose carriere troncate sul nascere. No no, meglio puntare su un nome meno conosciuto alle cronache.


A Nino Di Matteo è stata venduta l'illusione di poter ricoprire prima l'incarico di ministro della giustizia - assegnato al molto meno illustre Alfonso Bonafede, uomo tuttavia piuttosto pragmatico - e poi blandito con un ruolo di capo del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Al convegno di Ivrea del 2018, Casaleggio aveva addirittura fatto salire Di Matteo sul palco a prendersi quella rivincita sognata dopo 25 anni di vita vissuti sotto scorta, con la spada di Damocle dei famosi 200 chili di tritolo nascosti da qualche parte nei meandri dell'Aspromonte e nella probabile disponibilità del latitante Matteo Messina Denaro. 

Il ministro Alfonso Bonafede
Ma la politica è fatta di offensive e controffensive. L'Arena di Giletti si è attestata da tempo sulle posizioni filoleghiste e in generale della destra complottista (non dico "sovranista" perché è indice di un disprezzo della sovranità di cui invece avremmo un terribile bisogno), così come non è un mistero che da tempo Matteo Renzi stia cercando di fare le scarpe a Giuseppi: prima gli ha lanciato il salvagente dell'appoggio piddino per ottenere la riconferma degli uomini piazzati da Gentiloni nelle aziende-chiave controllate dallo Stato (Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica ecc.), poi ora che Conte non gli serve più cerca di sbarazzarsene il prima possibile, magari con qualche sponda nelle file del PD. 

Si tratta di giochi politici che servono ad inscenare un teatrino chiassoso per nascondere il dietro le quinte del potere di cui spesso non è facile decifrare gli schemi. Questo è un campo in cui si possono formulare solo delle ipotesi. 

Anzitutto c'è da dire che le esigenze di un cambio di esecutivo erano ben visibili da prima che il coronavirus ci mettesse il suo terribile zampino. L'arrivo del morbo ha solo accelerato le cose e le rivolte da paese sudamericano avvenute nelle carceri con la probabile regia della criminalità organizzata hanno mostrato al mondo come le stesse siano assolutamente fuori controllo, premendo su un esecutivo già fragile e messo sotto stress da una crisi senza precedenti.

Il passaggio di consegne da Vincenzo Boccia a Carlo Bonomi
 Ma è quando l'avversario è debole che bisogna colpire duro. Dopo l'attacco di Di Matteo e il conseguente indebolimento di Bonafede, il riferimento più solido dei 5 Stelle nel governo dopo Di Maio, ieri mattina è stato il turno di Carlo Bonomi, il nuovo presidente di Confindustria, che dalle pagine del Corriere della Sera ha accusato l'esecutivo di "fomentare una emergenza sociale che esploderà in autunno", e ha attaccato
 "reddito di cittadinanza, cassa ordinaria, straordinaria, in deroga, Naspi, Discoll. Potrei continuare [...] la risposta del governo alla crisi si esaurisce in una distribuzione di danaro a pioggia. Danaro che non avevamo, si badi bene, si tratta di soldi presi a prestito. Possiamo andare avanti cosi' un mese, due, tre. Ma quando i soldi saranno finiti senza nel frattempo aver fatto un solo investimento nella ripresa del sistema produttivo, allora la situazione sarà drammatica".
 Infine Bonomi ha sentenziato: 
"Ho l'impressione che ci si prepari a scaricare le responsabilità su banche e imprese. Non lo permetteremo".
L'attacco di Confindustria può leggersi sotto due profili. Anzitutto la tragedia dei morti da Covid-19 nell'industrioso nord ha dimostrato come l'attuale modello produttivo sia assolutamente incompatibile con la vita umana. Mezzi pubblici affollati, fabbriche strapiene, inquinamento, case di riposo trasformate in lazzaretti. Se i morti potessero parlare non ci direbbero certo di ripartire come decanta Renzi: ci implorerebbero piuttosto di fermarci facendo tesoro di questi giorni. Tuttavia le esigenze di massimizzazione del profitto spazzano presto i buoni propositi e anche la memoria delle tragedie. Inutile girarci intorno: la tesi che la classe politica settentrionale e gli industriali abbiano brigato per occultare test e dati sul reale impatto del contagio è più di un sospetto: la magistratura ha acceso i riflettori sul caso del Pio Albergo Trivulzio e sulle altre case di riposo lombarde in cui si sono registrate impennate di morti da coronavirus: inchieste che rischiano di travolgere buona parte della classe dirigente riciclatasi sulle ceneri del potere democristiano e socialista del dopo Mani Pulite. Per questo un governo più morbido sul piano delle norme penali sarebbe auspicabile in questo momento. L'esecutivo Conte non è certo un campione della giustizia, ma l'approvazione di leggi come lo "spazzacorrotti" non depongono a favore delle attuali esigenze di sistema: potevano semmai servire all'epoca dell'indignazione anticasta e dei vaffa-day, non ora che le cose sono cambiate.

Il secondo profilo sembra essere altrettanto chiaro: alla lunga nessun sistema capitalistico può reggersi sui sussidi. Si rende necessario tornare a recuperare il plusvalore prodotto dallo sfruttamento della forza lavoro. Attualmente oltre 20 milioni di italiani usufruiscono degli ammortizzatori sociali. Il capitale preme per assicurarsi i nuovi mercati che si preannunciano invitanti. Le consegne online, la logistica, l'esplosione del cibo a domicilio, Amazon, Uber, DeliverToo. Settori che vanno ulteriormente deregolamentati dalle già scarne normative di tutela del lavoro. E se si paragonano le roboanti parole di Bonomi con l'intervista all'acqua di rose di Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, la conclusione non può che essere una: si sta profilando un'aggressione senza precedenti alla classe lavoratrice di questo Paese. Già sono pronte le sirene eversive laddove il sistema democratico dovesse dimostrare di non dar seguito alle linee del nuovo modello neoliberista.

giovedì 30 aprile 2020

Il Totalitarismo Senza Dittatore

Il Consiglio europeo in videoconferenza, foto di Filippo Attili/LaPresse
 Anche in questo caso ringrazio una persona a me cara per i tanti spunti offerti.

Il totalitarismo odierno non rafforza, ma indebolisce i governi. La personalizzazione della politica è la spia del fatto che l'individuo-governante cede il posto ad un potere assolutamente impersonale, al contrario di quanto avveniva con i totalitarismi novecenteschi. Ecco che questo totalitarismo senza dittatore, da cui è promanato appunto uno stato d'eccezione senza sovrano, vede le Regioni trasformarsi in piccole satrapie, in signorie di stampo feudale. Ovviamente anche il loro potere è illusorio, perché si insinua esclusivamente nelle pieghe del declino del governo centrale. In sostanza la politica è totalmente subalterna al capitale.

Ricordo come alle scuole medie e superiori la lettura dei giornali fosse un momento importante della lezione. "Formare i cittadini del futuro attraverso l'informazione", questo era il mantra di una scuola che credeva nell'educazione civica. I faccioni di Prodi e Berlusconi in bella mostra e le vicissitudini della Fiat davano l'idea di un mondo sì al tramonto, ma pur sempre ancorato ad un minimo di stabilità e coerenza. 

Proviamo invece ad aprirli oggi i giornali (cartacei o informatici): seguire la cronaca è diventato tutt'altro che un momento per informarsi, quanto piuttosto un modo per istupidirsi ulteriormente. L'avvento del Covid-19 e la tragedia dei suoi morti ci inchiodano alla violenza di una cronaca invasiva e capillare, non più solo quotidiana, ma scandita negli interstizi delle nostre esistenze, ora per ora, minuto per minuto.

Il dato che emerge è lo spettacolo disarmante offerto dal teatrino della classe politica litigiosa ed insipiente. Il crollo dei partiti storici ha offerto praterie sociali immense ai governanti, i quali hanno potuto ridefinire a proprio vantaggio i rapporti con i propri governati, rendendoli meri destinatari delle loro direttive. Eppure proprio chi governa non sembra essere così immune dalle conseguenze di quel crollo: la guerra di tutti contro tutti a cui assistiamo in questi giorni ne è la dimostrazione. Tra presidenti di regione che si atteggiano a sceriffi o che viceversa aprono tutto in spregio delle direttive di governo, tra sindaci che si fanno riprendere mentre rimproverano i cittadini sorpresi a passeggiare per strada, tra ministri e premier che si affidano ad un numero sempre crescente di task force, emerge un unico ed essenziale dato di fatto: la politica è in uno stato di totale subalternità al contingente più immediato, ma soprattutto ad un'economia capitalistica dal volto feroce che nella sua nascosta intelligenza spinge per poter ripartire e conquistare i nuovi mercati che si aprono con questa crisi, la nomina di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria è un chiaro segnale in tal senso. Globalizzazione o meno, sicurezza sanitaria o meno, bisogna che la macchina produttiva riprenda a macinare profitti. Analogamente una parte della classe politica spinge per passare all'incasso: si vedano quei governatori che vogliono andare al voto già in estate, facendo proprie le regole di massimizzazione del profitto. In tutto questo non c'è politica, ma solo gestione dell'overdose di paure e tensioni che si sprigionano dalla moltitudine terrorizzata dal virus.

A distanza di due mesi dall'inizio del lockdown possiamo affermare che quel decantato risveglio delle coscienze - vuota espressione molto in voga in alcuni segmenti piccolo-borghesi della società - non si sta verificando e non si verificherà. Presupposto per una progressione culturale, etica e morale è infatti l'esistenza di un discorso e di una pratica che sedimentino nel corpo sociale e si facciano politica ben prima dell'avvento di tragedie collettive come quella attuale. Le rivoluzioni e le guerre tra fine Settecento ed Ottocento avevano la lunga tradizione dell'Illuminismo alle spalle; l'ultima guerra mondiale aveva dietro di sé la pratica socialista e comunista, da cui sono emerse la Resistenza e la conquista dei diritti civili e sociali nei decenni successivi, almeno fino alla comparsa del duo Reagan/Thatcher nel mondo angloamericano e dei loro epigoni nell'Europa continentale. 


Oggi non c'è nulla di tutto quello, ma solo il deserto in cui governati e governanti si illudono di poter contare qualcosa: lo stato di eccezione senza sovrano evocato da Marco Damilano per descrivere il lockdown di queste settimane è la conseguenza di questo stato di cose, la cartina al tornasole di un totalitarismo senza dittatore che produce "governi che si pavoneggiano per una forza che non hanno" e che frammenta lo Stato italiano in un cumulo di regioni-satrapie buone a sfruttare i varchi aperti dalla costituzionalizzazione del federalismo per fare di testa propria. E non è un fenomeno solo italiano: si veda in America come il presidente Trump sia stato costretto dal governatore Cuomo a non trasformare lo Stato di New York in zona rossa dinanzi all'avanzare del coronavirus. Ai toni roboanti non segue spesso la messa in pratica.

Nel confuso bailamme di questi giorni occorre menzionare la dipartita di due importanti riferimenti della cultura italiana: il giornalista Giulietto Chiesa ed il professore Aldo Masullo. La tumultuosità delle cronache e il divieto di svolgere i riti funebri hanno liquidato le loro morti ad una sesta o settima pagina di giornale, subito rimosse. Il pregio di uomini che hanno la forza di strapparci al particolare per ragionare intorno all'universale dovrebbe farsi spazio con forza tra la folla dei personaggi che popolano la cronaca. 

Se questa è la rinascita, mille volte meglio il Medioevo.

domenica 12 aprile 2020

Coronavirus, la Catarsi Che Non c'è


L'arrivo del virus, anzi del vairus, ha fatto entrare di prepotenza nelle nostre case i faccioni di medici e virologi di cui ignoravamo del tutto l'esistenza. Agli stessi si domanda qualunque cosa, di qualcuno abbiamo conosciuto pure la fede calcistica e le velleità adolescenziali. Ilaria Capua è suo malgrado una di questi. Sul Corriere della Sera risponde così alle domande del giornalista sul futuro che ci aspetta:
“Arriveranno grandi cambiamenti sul fronte lavoro che dobbiamo essere pronti ad accogliere con una mentalità nuova, diversa. Il vuoto delle strade e delle piazze che ci separa dalle nostre abitudini del passato fiorirà di nuove sfide e opportunità che dovremo cogliere nella assoluta certezza che saremo noi che dovremo adattarci al coronavirus e non il contrario”.
La risposta di Ilaria Capua è perfettamente in linea con l'arte medica di cui è insigne esponente. Piuttosto fa specie che certe domande vengano rivolte più ai tecnici che non ai politici, a cui teoricamente compete il compito di costruire la società del domani. Si fa presto a dire "arriveranno grandi cambiamenti sul fronte lavoro", "mentalità nuova", "nuove sfide e opportunità". Questo purtroppo lo sappiamo tutti, come sappiamo che i cambiamenti possono essere soltanto traumatici. La maggior parte di noi però non ha la benché più pallida idea di cosa voglia dire tutto questo. 

La politica, appunto, continua ad approcciarsi alla massa con lo stesso metro di sempre: parlate a costoro come se fossero dei bambini, e soprattutto trattateli come bambini anche un po' discoli, a giudicare dalle uscite di sindaci e governatori leggermente esaltati dal ruolo di novelli custodi di questa anomala rivoluzione dei costumi. L'arroganza è debolezza, nasconde più che mostrare. L'assenza di visione è la cifra di una politica abituata solo ad amministrare il contingente. L'unica istituzione che sembra avere una percezione del mondo che verrà è la Chiesa cattolica, pronta ad egemonizzare quegli spazi che le sovranità statali cederanno dinanzi alla recessione economica. Il picco dei contagiati e dei morti per Covid-19 ha infatti coinciso coi giorni che precedono la Pasqua. Il mainstream mediatico è stato così inondato dalle immagini della Passione e della Resurrezione di Cristo, del corpo claudicante di Papa Francesco che si muove in solitudine nella sterminata desolazione di piazza San Pietro mentre diffonde la benedizione Urbi et Orbi. La potenza comunicativa delle immagini era tale che dal Vaticano non sembra si siano fatti scrupoli che un crocifisso ligneo del '400 esposto per l'occasione potesse irrimediabilmente danneggiarsi a causa della pioggia. La società dello spettacolo ha le sue regole e i suoi Rocco Casalino: la sofferenza, il dolore, la catarsi, è tutto un continuo rievocare l'armamentario lessicale evangelico nei telegiornali trasmessi all'ora di punta. Nel dramma della pandemia si rievocano le radici cristiane del nostro Paese, dimenticando che non di rado gli stessi tribunali statali hanno fatto ricorso a queste motivazioni per giustificare l'ingerenza degli organi ecclesiastici nella vita civile. Il premier Giuseppe Conte fa sfoggio della sua formazione cattolicista nello sciorinare riti e liturgie durante l'intervista a Vatican news, ma appare un po' meno cristiano quando i ministri del suo governo PD-LeU-M5S (non i cattivoni della Lega quindi) firmano il decreto che chiude i porti ai migranti col pretesto dell'emergenza coronavirus. Come dire che allo sfoggio dell'armamentario lessicale non fa seguito l'onere caritatevole che impone il messaggio di Gesù, mostrandosi per quel che è: propaganda.

Al netto quindi dei richiami evangelici e del relativo florilegio di tricolori sventolati, tra i profani la confusione regna sovrana. Nel giro di un mese si è passati dal "vivi come credi", "fai avverare i tuoi sogni", "viaggia dove e quando vuoi", allo "state a casa!", "non vi muovete!", "mandiamo i carabinieri col lanciafiamme!" e amenità di questo genere. La torsione dello storytelling capitalistico è stata di un'immediatezza da Tso. Le affollate solitudini riprodotte dalle nuove tecnologie si sono trasformate presto nella materialità opprimente delle mura di casa, e nella tragedia di aver perso per sempre il proprio posto di lavoro o la propria attività commerciale. Ai più giovani si vaticinano scuole ed università quasi esclusivamente on-line, a drammatico completamento della scomparsa di quella carica emancipativa che queste istituzioni avevano ormai perso da tempo; ai più anziani si impone come soluzione l'isolamento domiciliare "almeno fino alla fine dell'anno" secondo la presidente della Commissione Ue Von der Leyen, a conclusione dell'ondata di cinismo collettivo che nel richiamare l'elevata età media dei decessi per coronavirus faceva tirare un sospiro di sollievo. Per molto tempo gireremo con guanti e mascherine obbligatori secondo ordinanze regionali più che statali, dove tutti potremo fregiarci di essere ammalati, dando finalmente un nome e una costituzione a questa ipocondria da "vita senza senso" con cui si conviveva già da un po'.

Che dire poi di chi ciancia di rinascita spirituale del genere umano, della nazione tutta? In effetti il richiamo alla catarsi va in questa direzione. Le centinaia di migliaia di morti non possono non significare un futuro in cui tutti vivremo felici e contenti. Ma non si può confondere il frutto di un processo mentale individuale con le dinamiche di popoli, nazioni, classi: l'inganno dell'attuale dibattito pubblico è proprio questo. Se interrogassimo siriani e yemeniti sapremmo che dalla distruzione della vita violenta ed improvvisa non c'è catarsi, ma solo adattamento e assuefazione alle circostanze. E poi a vedere gli specchi acquei dei nostri litorali mai così limpidi e i cieli sgombri da ferraglia inutile e rumorosa, verrebbe da dire che forse è il pianeta che sta vivendo un momento di rinascita o quantomeno di tregua, a dispetto delle sofferenze umane. L'unica certezza è che questo lockdown presenterà un conto molto amaro ad una società che era già provata dalla crisi finanziaria del 2008. Vecchi e nuovi debiti si accumuleranno sul groppone dei più deboli non appena l'infernale macchina burocratica ripartirà con le sue notifiche e i suoi pignoramenti. Allora vedremo se questo presunto insegnamento ci tratterrà dal pronunciare una bestemmia.

domenica 22 marzo 2020

In Gabbia


Tra tante crisi che sarebbero potute scoppiare a sconquassare un sistema avido e fragile al contempo, la pandemia è la più inabilitante di tutte. Costringe milioni di persone a stare a casa ad attendere angosciose, mentre soltanto una ristretta fascia di popolazione, dotata delle competenze tecniche necessarie, può operare rischiando la propria vita.

Non è una guerra in cui puoi arruolarti e immolarti per la patria.
Non è una carestia in cui puoi requisire gli alimenti ai ricchi per darli ai poveri.
Non è un terremoto in cui puoi prodigarti a scavare tra le macerie con le tue mani.

Davanti a questo caleidoscopio dell'orrore ti rendi conto che si tratta di una fottuta epidemia, l'ennesima tragedia di massa che sei costretto a guardare dalle quattro mura di casa, con la differenza che stavolta tutto ciò sta avvenendo fuori alla tua porta. E ti scopri in balìa del destino, come una preda nell'attesa che la malattia ghermisca te, o peggio i tuoi familiari. 

Non sono questi arresti domiciliari a spaventarmi. Da tempo l'apparente libertà si è rovesciata nel suo opposto, ossia nella costrizione
Viviamo in una fase storica particolare, in cui la stessa libertà genera costrizioni. La libertà di potere produce persino più vincoli del dovere disciplinare, che esprime obblighi e divieti. Il dovere ha un limite: il potere, invece, non ne ha. Perciò la costrizione che deriva dal potere è illimitata e con ciò ci ritroviamo in una situazione paradossale. La libertà è, nei fatti, l'antagonista della costrizione, essere liberi significa essere liberi da costrizioni. Al momento, questa libertà - che dovrebbe essere il contrario della costrizione - genera essa stessa costrizioni. Disturbi psichici come depressione e bornout sono espressione di una profonda crisi della libertà: indicatori patologici del fatto che spesso oggi si rovescia in costrizione. (Byung-Chul Han - Psicopolitica, pag. 2) 
Che dunque la costrizione sia oggi imposta per decreto governativo, cambia poco. 
Piuttosto mi spaventa questa condizione di passività forzata, nella consapevolezza che ogni "atto" non tecnicamente definito può solo arrecare danni.

Ecco perché è forse il caso di scrollarsi di dosso i numeri e le statistiche, cercare di non farsi inghiottire da questa passività, provando invece a chiederci come siamo arrivati a questo punto, come siamo arrivati a dover assistere alle file di camion militari che trasportano le centinaia di bare a cui non si riesce ad assicurare una degna sepoltura. 

Le nostre conoscenze e il nostro sviluppo tecnologico non sono serviti a fermare, o quantomeno contenere un virus relativamente pericoloso. Altroché "ordine mondiale": il caos è la vera cifra, motore primo affinché le crisi possano distruggere le forze produttive e assicurare la ripartenza del ciclo capitalistico su basi nuove.

mercoledì 4 marzo 2020

Come Muore Un 15enne

Ugo Russo
Morire di morte violenta a 15 anni è un insulto alla società tutta. E' successo a Napoli, ma non importa dove sia successo. Hai voglia a dargli del rapinatore, a dire che aveva una pistola (giocattolo) con cui andava a fare i "pezzi", a creare il mostro per espellerlo dal consesso civile a cui in teoria noialtri apparterremmo. Qualcuno per alzare ancora di più le barriere ha voluto paragonare la sua uccisione con quella di Annalisa Durante, lei sì vittima innocente, uccisa a 14 anni in un conflitto a fuoco. D'altronde il profilo Fb di Ugo Russo (questo è il nome del 15enne ucciso) lo condanna senz'appello: pose da duro, sguardo senza anima, atteggiamento da boss in erba e commenti in stile Gomorra. Per questo adolescente morto senza la possibilità di una redenzione non riesco che a provare sconforto, e una tristezza infinita. Pudore suggerirebbe di rimanere in silenzio in questi casi, ma ormai questo sentimento appartiene ad un'età arcaica, completamente dissolto dinanzi alle migliaia di commenti sui social che si sono susseguiti nell'immediatezza del fatto: chi sceglie oggi di rimanere in silenzio appare poco più di un codardo, di uno snob. Se le cose stanno così, tanto vale provare a spendere qualche parola che non abbia il sapore del rancore o del ragionamento scontato.  

Partiamo da un'osservazione banale e quasi irrispettosa. Ugo Russo non era l'unico della sua età a commettere reati predatori. Se fosse stato così, il problema non si sarebbe neanche posto. Ed invece ce ne sono tanti, troppi come Ugo. Sarei curioso di prendere i registri nelle scuole, sfogliare le pagelle, i voti, le bocciature, esaminare i tassi di evasione scolastica, scendere in quegli inferi dove le istituzioni latitano per precisa scelta. A quali storie avremmo accesso? Un ragazzino subisce tre bocciature, a casa non ci vuole stare perché i suoi genitori fanno continuo uso di droghe; un altro bambino ha la mamma che si prostituisce in casa; qualcun altro i genitori li ha persi per i più svariati motivi, tanti possono vederli senza una cella di protezione. La loro vita è segnata, l'ingresso nel mondo della malavita per molti è quasi scontata, inutile girarci intorno o dire che "se sei onesto non lo fai". Le cose non funzionano così. Già negli anni '50 la presunta irredimibilità di quel lumpenproletariat napoletano spingeva l'area stalinista del PCI ad inorridire dinanzi alla sola idea di stabilire un contatto con quel mondo dei vicoli legato da articolazioni di ogni genere, oppressi da un'asfissiante coltre di conformismo. Un atteggiamento che spianò la strada all'arcinemico Achille Lauro nella conquista della città, i cui effetti nefasti sono ancora oggi visibili.

In questa situazione chiedere oggi alla scuola di fare di più è quasi utopico, più di come lo era appena una decina d'anni fa. In fondo la scuola non è mai riuscita a giocare un ruolo davvero decisivo nel recupero di un'infanzia difficile. La lucida analisi degli alunni della scuola di Barbiana animata da don Lorenzo Milani sta lì come monito a ricordarcelo, a distanza di cinquant'anni dalla stesura del libro "Lettere ad una professoressa": la scuola cura i sani, non gli ammalati. Qualcuno dirà che i tempi son cambiati, che accanirsi oggi contro la scuola è come sparare alla Croce Rossa, che durante il boom economico era possibile muovere critiche e pretendere di più, mentre oggi che siamo tornati a livelli di prestazione da dopoguerra bisogna responsabilizzare le famiglie affinché si incarichino sempre di più dei propri figli, provvedendo da sé a colmare le lacune della scuola, e se questi figli escono disgraziati è perché questi genitori non sono capaci di assolvere ai propri compiti. Si ripropone in chiave moderna il principio per cui le colpe dei padri ricadono sui figli. Insomma bisogna che ognuno si pianga i suoi guai da solo, e dati alla mano ciò è drammaticamente vero. E dunque basta così poco per lavarsi la coscienza? Per gli utenti del web 3.0 le cose stanno così, fanculo la Costituzione e i suoi commi sulla parità di accesso ai diritti e alle opportunità, fanculo l'idea di collettività: oggi vale il si salvi chi può.

Questi utenti incalzano, dicono che hanno assaltato un pronto soccorso, ne hanno devastato le suppellettili, hanno spintonato i familiari di una povera ragazza ricoverata e morta proprio in quei frangenti a causa delle botte subite dal compagno, qualcuno è andato pure a sparare contro la facciata del comando provinciale dei carabinieri per vendetta, perché l'assassino di Ugo è uno sbirro infame. Tutto ciò è vero. Così com'è vera l'ira dei parenti e degli amici più stretti, il loro atavico odio verso le divise e tutto ciò che ha il sapore di "istituzionale", come gli ospedali e il loro interminabile iter burocratico per accedere alle cure; frangenti in cui tutto ciò che viene avvertito come "altro da sé" diventa nemico, dove lo Stato è il nemico, quel Leviatano hobbesiano che dinanzi alle manifestazioni di violenza del contropotere ci appare sempre con le armi spuntate, perché chi ne manovra le leve sa che in fondo con questo contropotere bisogna scendere a patti di reciproca convenienza. 

Aziende servite dalla ditta "Kuadra", legata al clan Lo Russo - Anno 2013

Ed è proprio sulla natura di questo contropotere, e dei suoi rapporti con il potere costituito, che bisognerebbe interrogarsi in maniera incessante, prendendo spunto anche da questo episodio così drammatico e apparentemente lontano. A Napoli si dice spesso che "gli ospedali stanno in mano alla camorra", le cronache giudiziarie più recenti sembrano d'altronde confermarlo: il nosocomio San Giovanni Bosco era del tutto asservito alle logiche del clan Contini, tanto che quest'ultimo decideva quali reparti aprire e quali chiudere. Le imprese di pulizia e sanificazione legate al clan Lo Russo si sono ritagliate una fetta di mercato talmente grande a livello nazionale che qualche anno fa l'Antitrust le multò, insieme ad altri colossi del settore, per aver posto in essere comportamenti collusivi volti ad alterare la leale concorrenza attraverso il regime di oligopolio che avevano costituito. Qualcuno si è interrogato sui nessi e sulle contraddizioni che certe manifestazioni del contropotere sembrano assumere? In tempi di emergenza Coronavirus soffiare sul fuoco potrebbe essere una strategia vincente, colpire dove in questa fase lo Stato è più debole, magari approfittando della morte di un 15enne. Proprio il giorno prima dell'omicidio un vecchio boss dei Quartieri Spagnoli, Ciro Mariano, in un'intervista al Mattino, dichiarava:
A Napoli, la camorra non esiste più. Non c'è più, come dico io, la malavita. Ci sono bande di ragazzi che fanno sciocchezze e a volte per questo diventano pericolosi, perché possono fare vittime anche tra persone estranee al sistema. Fanno le stese, che sono solo tarantelle per fare bordello, per apparire, senza alcun senso».
E ancora
I quartierini si conoscono tutti e si rispettano, la gente mi vuole bene anche se ogni tanto è venuto qualche ragazzo qui sotto a fare tarantelle inutili. Io voglio stare tranquillo, sono fuori. Cerco di spiegare che possono guadagnare di più lavorando onestamente, mentre si sbattono per due-tre grammi di droga. Se fanno sciocchezze, rischiano di allontanare i turisti che sono comparsi anche ai Quartieri e portano guadagni».
"Bande di ragazzi che fanno sciocchezze", che tradotto vuol dire: ragazzi non irreggimentati e non disciplinati secondo le ferree logiche dei clan camorristici del passato, che fanno rapine solo per procurarsi i soldi per una serata in discoteca. Profetico l'ex boss. E altrettanto pronta è stata la reazione a queste parole, ironia del destino proveniente dal ventre di quei Quartieri Spagnoli che in passato sono stati il suo dominio incontrastato, ottenuto con pesanti tributi di sangue. Chi ha dato il via libera a quella reazione, approfittando della rabbia incontenibile del popolo che abita i vicoli, ha saputo così conquistarsi il loro consenso e i loro cuori. La loro irredimibilità è ancora una volta confermata.

Se dunque il quadro è questo, voi cosa farete? Certo procederete a contestare l'art. 419 del codice penale agli autori del raid al Vecchio Pellegrini, ossia devastazione e saccheggio, con pene che variano dagli 8 ai 15 anni. La mossa si rende necessaria perché l'eco mediatica è stata forte, e la fase storica è molto delicata. Ma questo, è chiaro, avverrà nell'immediato. Qualcuno di voi in fondo è gia pronto a sedersi al tavolo delle trattative, a negoziare con i nuovi padroni del territorio, con questo contropotere che - come evidenziato dallo stesso Ciro Mariano - ha ormai perso la fisionomia delle tradizionali organizzazioni criminali, anch'esso terribilmente liquido ma anche in grado di raggrumarsi con estrema rapidità intorno al ras di turno. Un contropotere spaccato tra il gotha dei grandi cartelli camorristici che dominano la città, completamente proiettati negli affari economici, e la manovalanza che spinge per ritagliarsi nuovi spazi di potere, s'intende sempre e solo nella cornice sancita dai primi. Cosa gli prometterete? Nuovi appalti, nuove assunzioni? Una quota nella gestione dell'emergenza Coronavirus? Chi lo sa.

Le mie sono solo illazioni, sia chiaro, fantasie e morbosi pensieri di chi non ha il polso della situazione, che davanti all'uccisione di un 15enne si è lasciato andare a considerazioni che esulano dal fatto di sangue in sé. Ma in fondo non è sempre così? Il giovanissimo rapinatore e il giovane carabiniere fuori servizio sono al contempo vittime e carnefici di un complicato meccanismo che di tanto in tanto va in frizione in alcuni punti dei suoi ingraggi. Ed è così che si polarizzano i due fronti, si dà voce al rancore sociale, tutto per far sì che nulla cambi, in attesa dei prossimi Mario Cerciello Rega da un lato e degli Ugo Russo dall'altro.

Al netto di tutto, il 1° marzo notte un 15enne è stato ucciso a Napoli con tre colpi di pistola. E voi non cambierete di una virgola.