Era il 19 febbraio scorso quando su Sabratha, città libica al confine con la Tunisia, caddero le bombe dei caccia statunitensi. L'obiettivo dell'attacco era Noureddine Chouchane, capo di una cellula dell'Isis, ritenuto la mente degli attentati a Tunisi che costarono la vita a decine di turisti occidentali, tra cui quattro italiani. Il raid Usa provocò 41 vittime.
Sabratha è anche la città dove erano tenuti sotto sequestro i quattro tecnici italiani della Bonatti. È facile ipotizzare che, a seguito di quel raid, vi sia stata un'accelerazione degli eventi che hanno portato alla morte di Salvatore Failla e Fausto Piano. Ed è facile ipotizzare che le trattative per la loro liberazione siano divenute a tal punto febbrili da rendere letale qualsiasi imprevisto, come purtroppo si è verificato. Appare infatti strano che né il governo italiano né il governo americano fossero a conoscenza della presenza degli ostaggi in quella zona, cosí come
appare strano che l'Italia non abbia mosso riserve nel momento in cui gli americani li avvisavano dell'attacco (La Stampa),
in virtù del nostro ruolo di "guida" della missione militare e della decisione di destinare la regione della Tripolitania
al controllo italiano, a dimostrazione di come questo ruolo sia più fittizio che altro. Sul fronte interno, invece, la questione degli ostaggi era semplicemente scomparsa dal dibattito parlamentare.
Dinanzi ai dubbi che si trascineranno nei giorni a seguire, Renzi (o chi per lui) ha deciso di anticiparsi, dichiarando da Barbara d'Urso di non voler invadere la Libia (contrariamente a quanto riferito pochi giorni prima dall'ambasciatore americano a Roma). Una mossa che tranquillizza le masse e relega questa vicenda ad un pubblico più ristretto.
Al netto di queste valutazioni, rimane il silenzio di chi se n'è andato. Il nostro pensiero va alle famiglie dei tecnici morti in Libia.
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