lunedì 20 giugno 2016

Stato e Terzo Settore all'epoca dell'Austerity


Il richiamo continuo alla sfera dell'Etica e della Morale diventa spesso un modo per far accettare ai cittadini misure impopolari che altrimenti non riuscirebbero a riscuotere, se non un consenso aperto, almeno una acquiescenza silenziosa, in una rievocazione delle idee vittoriane di parsimonia che servivano ad ammantare di moralità lo sfruttamento che la classe dominante esercitava nei confronti delle masse operaie durante la rivoluzione industriale inglese.

Questo richiamo di parsimonia (anzi di "austerità") che avviene oggi, diventa ancor più irritante quando appare chiaro a tutti che il sistema produttivo è ormai in grado di assicurare il benessere collettivo. Eppure, nella visione che teorizza la scarsità del Capitale come presupposto della crescita, le norme approvate servono a smantellare il Welfare, ossia la ragione principale per cui si dovrebbe giustificare l'esistenza di uno Stato.

In funzione di questa ideologia, il 18 giugno è stata pubblicata in G.U. la Riforma del Terzo Settore. Si tratta di una legge delega, a cui seguiranno i decreti attuativi del governo.

La riforma mira ad un riordino complessivo della materia nel settore no-profit in funzione di una sua maggiore stabilizzazione, tanto da prevedere una serie di misure di interventismo statale con l'istituzione di un Fondo rotativo presso il MISE e della fondazione Italia Sociale, un ente privato a capitale pubblico che avrà lo scopo di sostenere le nuove imprese sociali mediante l’apporto di risorse finanziarie e di competenze gestionali con cui puntare alla realizzazione e allo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del Terzo settore (art.10). La fondazione è stata ribattezzata "l'IRI del sociale", quasi a sottolineare come la funzione dello Stato di pianificatore pubblico in realtà non sia mai venuta meno, ma abbia semplicemente deviato il proprio obiettivo a favore della progressiva privatizzazione dei servizi pubblici. La legge infatti accentua il ruolo dei privati nell'erogazione di servizi con la previsione di forme di remunerazione del capitale sociale che assicurino la prevalente destinazione degli utili al conseguimento dell’oggetto sociale (art. 6). 

Il disegno dietro alla riforma é quello di sostituire l'elemento della spontaneità insito nel volontariato con quello della stabilità, così da conferire maggiore incidenza ad un mercato che in Italia vede già operanti 300mila enti no-profit per un giro di 64 miliardi di euro, pari al 4,3% del PIL (dati Istat, 2011). Un mercato dell'imprenditoria sociale in grado di fornire un'offerta adeguata alla domanda sempre crescente di persone sofferenti a causa delle politiche di austerity. Con buona pace dello Stato sociale.

Sia chiaro, non si vuole qui denigrare il volontariato come sincera dedizione verso i più deboli né l'apporto dei migliaia di operatori che sopperiscono all'assenza (voluta) degli enti pubblici. Ma il volontariato è uno strumento che serve ad affrontare le conseguenze e non a curare le cause (che è il compito della Politica), il suo è un campo d'azione limitato a risolvere le incombenze più urgenti della vasta categoria dei soggetti spoliati dal Sistema (senzatetto, migranti, minori senza accompagnamento, vittime di tratta ecc.). Il disegno del legislatore è quello di sopperire al programmato svuotamento dello Stato sociale mediante la legittimazione dell'attività privata nell'erogazione dei servizi sociali, cosa che (ribadiamo) deve invece essere la funzione primaria dello Stato. Altrimenti cui prodest la sua stessa esistenza se ridotto a esattore di tasse e strumento di repressione, e soprattutto cui prodest una Politica che non è affermazione di diritti e giustizia sociale?

sabato 18 giugno 2016

La Rivoluzione Culturale e il Potere




Qualcuno tende a derubricare il concetto della lotta di classe come un vecchio reperto archeologico, forse un po’ ingombrante, roba da marxisti-leninisti della prima ora, i quali, rinchiusi in polverosi scantinati, sognano il ritorno di bandiera rossa nelle piazze della grande Madre Russia.
 
Oggi pertanto è divenuto tabù rievocare i concetti di lotta e di coscienza di classe, anche perché l’esperienza storica sembra aver condannato per sempre l’alternativa socialista al capitalismo, col sollievo di tanti in Occidente, perché quelle idee rischiavano seriamente di affermarsi dall’interno nei Paesi satelliti degli USA, minando le basi della politica imperialista americana.
Il crollo del Muro di Berlino e l’avvento del Terzo Millennio ci hanno restituito una società che è cambiata solo all’apparenza, perché le dinamiche dello sfruttamento non sono venute meno, essendosi adattate ai nuovi tempi e al nuovo linguaggio (Spending Review, Jobs Act, bellezza@governo.it). Eppure sono tante le idee di rinnovamento e di “rivoluzione culturale” che fermentano in determinate partizioni della struttura sociale, che provano ad acquistare una certa autorevolezza ai tanti contenitori dello scenario politico, ossia partiti e movimenti istituzionali.
Il problema tuttavia non è la mancanza di idee o di proposte da parte della cittadinanza: dall’economia circolare alla sperimentazione di tecniche di recupero dei rifiuti che li identifichino come risorsa, agli entusiasti sognatori della società a misura d’uomo sfugge sempre un dato di fondo: tali idee, per diventare patrimonio comune, devono attraversare il filtro ideologico, economico, giuridico e culturale costruito dalla classe dominante. Ossia, devono ricevere il bollino del Potere, affinché non diventino “armi” che possano mettere in discussione la posizione di dominio di quella che una volta veniva chiamata la “borghesia”.
Il primo ostacolo è di tipo economico: un’idea innovativa dev’essere profittabile. La profittabilità è la regola aurea di un sistema fondato sulla logica del Capitale. Un’idea, per funzionare regolarmente in questo sistema, deve produrre un profitto. Ciò vuol dire che è fondamentale sfruttare a proprio vantaggio i mezzi necessari a mettere a compimento quell’idea. Che si tratti della “giusta remunerazione dovuta all’impiego del capitale nella produzione” (secondo gli economisti della scuola neoclassica) o dell’”ingiusto sfruttamento della classe lavoratrice da parte dei proprietari dei mezzi di produzione” (secondo gli economisti di scuola marxista), il bisogno del profitto condiziona a monte qualsiasi buona idea, e se questa funzionerà anche nel lungo periodo, si dovrà ricorrere alla produzione di massa (che è quella che abbatte i costi e massimizza il profitto), ossia quella dove operano solo grandi aziende e multinazionali.
Il secondo ostacolo è di tipo culturale e ideologico: chi controlla i gangli vitali della società, in particolare le università e in generale i centri di produzione della cultura, è preposto al vaglio delle idee sulla base dei parametri della propria classe di riferimento. E oggi l’unica classe ad avere una forte coscienza di sé è proprio quella dominante: la quotidianità pullula di convegni accademici, seminari, tavole rotonde, dove v’è perlopiù l’esaltazione dell’autoreferenzialità consapevole. Cerchie ristrette in cui si discute del mondo che verrà, perché sia in questi consessi che in quelli riservati delle grandi aziende e dei cd. think-tank, l’obiettivo non è la produzione della cultura futura (come dicono ipocritamente i loro artefici) ma la produzione dei parametri culturali, ideologici e linguistici, affinché le nuove idee vengano assorbite e diventino ancora strumento di autoconservazione della classe dominante. Si tratta di una sorta di barriere all’ingresso. Nessuna valevole idea diventa patrimonio comune (leggi: non si afferma nel mondo e nel linguaggio dei mass media), se non segue le convenzioni e le “procedure” culturali di quella sterminata pletora di accademici, rettori, docenti e consulenti che sono portatori di interessi di partiti politici, grandi aziende, gruppi di pressione ecc; insomma interessi del cosmo borghese e non del popolo.
Il terzo ostacolo è di tipo giuridico: la forza offerta dall’autorità statuale è piegata agli interessi della classe dominante. Quindi gli uffici che siamo costretti a bussare e le procedure che siamo obbligati a rispettare non sono un destino ineluttabile, ma l’applicazione pratica dell’ideologia di chi è al Potere. Non serve qui dare grandi esempi per chiarire il meccanismo: la burocrazia (insieme ai rapporti di lavoro) è uno degli elementi della quotidianità attraverso il quale la maggioranza delle persone si rende conto che esiste un Potere contro cui ci si scontra, perché è tramite l’apparato repressivo e burocratico che il Re è nudo, nella sua manifesta coercizione, svestito del paravento dell’approvazione democratica e dello sfruttamento buono delle idee in nome dello status quo di chi domina.
Ed è così che le idee diventano strumenti di dominio, invece che di libertà.
Ciò non vuol dire di certo che bisogna spegnere il cervello e ritornare a strisciare lungo il bagnasciuga dei nostri (inquinati) mari come i nostri avi del Cambriano, ma bisogna essere consapevoli che, a certi livelli e nell’attuale sistema, è quasi impossibile che una buona idea non venga manipolata, se è in grado di mettere in discussione gli assetti del potere, della distribuzione dei redditi.