mercoledì 30 maggio 2018

Chi Si Adagia e Chi Dirige


Osservazioni estemporanee sulla realtà

In Italia esiste purtroppo una "sporca" tendenza: quella di accettare acriticamente i mutamenti d'opinione che si verificano nelle masse, con la speranza di poter conservare in questo modo una certa agibilità politica (che in buona sostanza consiste nell'essere ascoltato/seguito dal maggior numero di persone), o addirittura con la convinzione di poter guidare, o quantomeno controllare, i processi di trasformazione collettiva. Ciò avviene in maniera ancor più accentuata negli ultimi tempi, ed è la cifra offerta dal crollo dei grandi partiti che hanno fatto la storia d'Italia. Sembra quasi che il volere della maggioranza sia diventato carico di senso avveniristico, messianico, forse sacrale sotto certi aspetti, accentuando quel detto napoletano "Voce 'e popolo, voce 'e Ddio" fino al parossismo.

In realtà ciò si rivela un'illusione nella misura in cui ogni partito (inteso come collettività organizzata) che vuole dirsi rivoluzionario, deve assumersi il compito di dirigere le masse popolari, non di farsi dirigere, fino al punto di appellarsi acriticamente loro "portavoce", come una certa propaganda ci ha ultimamente abituati. In primis perché ciò non è affatto vero, visto che la distanza tra governanti e governati non può che essere abissale per il modo in cui sono strutturate le odierne istituzioni statali, in cui l'unico contatto davvero decisivo è quello di matrice lobbistica; in secundis svilisce la funzione stessa del partito rivoluzionario, che deve invece essere improntato alla contestazione, alla rottura e alla ricreazione dell'esistente, non ad una sua semplice adesione.

La logica del "portavoce", o di colui che accetta acriticamente nelle speranze spiegate di sopra - qui non consideriamo l'ipotesi dell'utile personale - appare anche essere un limite di chi si adopera così. Dal mio personale punto di vista, e mi si perdoni se possa peccare di presunzione, le masse popolari dovrebbero essere rieducate alla concezione che la nostra società è tutt'oggi fondata sulla divisione del lavoro, sulla differenza tra élite e classi subalterne, occultate da due elementi: 
  1. l'allargamento dell'ideologia borghese a tutti gli strati della popolazione, un meccanismo di psicologia sociale che in Italia si è affermato a cavallo tra gli anni '60 e '70 come conseguenza del boom economico degli anni '50, diventato ormai fenomeno di cultura (anzi di subcultura);
  2. l'esplosione del cd. lavoro improduttivo, che ha generato l'esercito di precari "titolati" a zonzo per le metropoli occidentali. 
A fronte di ciò, il partito (o l'individuo) che si limiti ad aderire al sentiment della folla dimostra di avere una concezione ristretta del proprio ruolo e del futuro che si vuole costruire.

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