Davvero c'è chi crede che il motivo per cui il governo Meloni decide oggi di sgomberare prima il Leoncavallo a Milano e poi l'Askatasuna a Torino, ossia i principali "centri sociali" (diciamo così) del nord Italia e quindi del Paese, sia la presenza di "violenti" al loro interno? Fermo restando i più che legittimi dubbi circa l'effettiva esistenza di questa categoria mediatica, occorre ricordare come la violenza di piazza portata avanti da minoranze organizzate si è spesso dimostrata la migliore fucina di consenso per i governi democristiani di ieri e quelli reazionari di oggi.
In realtà a sorreggere tale decisione vi sono due motivazioni. Anzitutto, per quanto riguarda lo sgombero dell'Askatasuna, c'è la necessità di sviare lo sguardo dalla manovra economica, tallone d'Achille della retorica meloniana, sia per l'esiguità delle risorse messe a disposizione, sia per la necessità impellente di tagliare pensioni e welfare pur di far quadrare i bilanci: ci sono gli stringenti paletti del nuovo Patto di stabilità firmato l'anno scorso dall'Italia, unitamente alla necessità di sborsare miliardi per il riarmo europeo.
La seconda motivazione è più di lungo periodo. L'Europa ha deciso che la guerra è la soluzione alla crisi del suo modello imperialistico, tanto da aver spinto generali e politici ad avvertire i popoli che dovremmo riabituarci a fare gli stessi sacrifici dei nostri nonni e bisnonni, ossia a crepare sotto le bombe. Peccato che proprio i più giovani, cioè i primi che dovrebbero armarsi ed andare al fronte, sono i più contrari alla militarizzazione della società, tanto da rifiutare l'arruolamento in caso di chiamata alle armi (lo dichiara ben il 68%).
Ebbene, in questo clima di non particolare ardore patriottico, il governo individua nei centri sociali il luogo in cui il dissenso giovanile potrebbe coagularsi, come già accaduto durante le imponenti manifestazioni contro il genocidio in Palestina di qualche settimana fa, pacifiste e antimilitariste, in quanto proprio la componente giovanile è stata la più numerosa. Questo perché in un centro sociale, al netto dei pregiudizi che aleggiano presso i meno informati, transitano componenti sociali del tutto eterogenee: militanti comunisti o apertamente anarchici certo, ma anche esponenti delle istituzioni e della stampa, del mondo delle università, sindacati di base o provenienti dalle retroguardie meno compromesse dei confederali, sottoproletari ecc. Componenti che, tra l'altro, non vanno affatto immaginate come compartimenti stagni, bensì in continuo sovrapporsi e mutarsi.
Pur essendo oggi luoghi meno aggreganti rispetto al passato, in alcuni casi costretti a scendere a patti con le istituzioni per evitarne lo sgombero, si tratta comunque di potenziali coaguli di dissenso giovanile assolutamente intollerabili dinanzi alla parola d'ordine del Riarmo europeo. Non a caso è iniziata da tempo una nuova fase di spionaggio politico, sempre esistito, ma che adesso viene portato avanti in maniera piuttosto massiva ed incurante delle conseguenze, sia mediante l'utilizzo di spyware militari ai danni di attivisti e giornalisti, sia attraverso l'impiego di agenti sotto copertura tra le fila di realtà politiche come Potere al Popolo, fra l'altro effettuate prima delle mobilitazioni dell'ultimo autunno (si veda in proposito l'inchiesta di Fanpage), dunque in tempi non sospetti.
Accanto al sabotaggio del dissenso, si affianca l'iniziativa parallela di costruzione del consenso intorno alle armi, con percorsi come quelli immaginati per l'Università di Bologna, dove l'istituzione di corsi di studio per ufficiali militari, dunque a diretto contatto con tutti gli altri studenti, è stato solo per il momento accantonato. Un percorso che, nonostante le prevedibili resistenze, va portato avanti ad ogni costo, almeno finché la retorica bellicista impregnerà il discorso pubblico.

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