martedì 18 ottobre 2016

  SCHIAVI 2.0    - Il Centro di Accoglienza

Foto di Fabio D'Auria
Le otto ragazze nigeriane ospitate dal centro di accoglienza sono sedute sul divano della camera di ingresso. Sono arrabbiate e iniziano a raccontare la loro storia. Non hanno documenti di identità né l'assistenza sanitaria, nonostante si trovino in Italia da 3 mesi. Una di loro è incinta e non è mai andata in ospedale. Ad ascoltarle c'è il gestore, un ragazzone robusto alto quasi due metri, appassionato di boxe e arti marziali, a giudicare dal suo profilo Facebook. Improvvisamente l'uomo perde la pazienza e inizia ad inveire violentemente nei confronti di una di loro: "'Mò basta, stai dicendo un sacco di bugie! Mò m'e rutt 'o cazzE fà 'o cess 'e capit? Fà 'o cess!". I toni si surriscaldano. Una delle ragazze si alza e afferra una busta della spesa con della frutta dentro, la getta per terra e grida in inglese: "Questo l'ho comprato col mio pocket money (2,50 € al giorno, ndr), non ci danno cibo e dobbiamo vedercela da soli, è normale questo?". Si chiama Fatima (i nomi sono di fantasia), è magrolina, ha la pelle segnata da ferite da taglio e macchioline nere.
Alla discussione si aggiunge anche la madre del gestore, una donna sui sessant'anni: "Sta busciarda zozzosa, l'avimme data sempe a magnà e si lamenta pure! Da quando ce stanno chesti ttre, 'e vvedite, amm passat'e guaje! 'E francesi steveno sempe accussì quiete!".

E' questa la vita quotidiana in uno dei tanti Centri di Accoglienza Straordinari (CAS) della provincia di Napoli, dove cooperative improvvisate stanno continuando a macinare milioni sulla pelle dei migranti. Questo è un centro particolare, potremmo dire "a conduzione familiare", in cui i due proprietari, madre e figlio, hanno messo a disposizione di una cooperativa parte del loro appartamento, ospitandovi ben 11 migranti (8 donne, 2 uomini e un minorenne di 14 anni) in sessanta metri quadri. Il clima di sottomissione dovuto alla convivenza forzata è rinchiuso nelle quattro mura di una anonima casa, lontano dagli occhi indiscreti di cittadini e associazioni.

Una donna nigeriana assiste in disparte. Si chiama Terry e zoppica vistosamente, ha una caviglia gonfia. Con un gesto delle mani mima l'infortunio che si è procurata: "Mi sono fratturata durante il viaggio in Libia, l'osso mi era uscito di fuori e si è ricomposto da solo. Sono in Italia da tre mesi, ma finora nessuno mi ha portato in ospedale". Poche ore prima era in strada a chiedere l'elemosina insieme ad altre ragazze del centro. "Con il solo pocket money non ce la facciamo. Le scarpe e i vestiti sono gli stessi da quando siamo sbarcate a Lampedusa". La cooperativa dovrebbe assicurare uno stock di abiti e operatori qualificati, ma i diritti sono roba per anime belle.

Il ragazzino di 14 anni è ivoriano, ha le cuffiette nelle orecchie e non spiaccica una parola. Gli chiediamo se frequenta la scuola, ma subito si intromette il gestore: "Certo che va a scuola, comincia domani!". Il ragazzino lo guarda interdetto e con la testa accenna un "no". "Comme! 'A scola ccà vicino, inizi lunedì". Il giorno cambia, il ragazzino annuisce e si rinchiude nel suo silenzio. La mamma è vicino a lui, ma non sembra interessarsi della condizione depressiva del figlio.

L'impressione è che le difficili condizioni di vita abbiano fatto saltare tutti i punti di riferimento per chi ha sfidato più volte la morte per arrivare in Italia. Eppure la situazione di questo centro non è di certo tra le peggiori...

Fine Prima Parte

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